Rischio green washing per l’ottica?

Nella filiera del settore solo un cambiamento culturale e l’introduzione di un protocollo verde possono evitare che l’attenzione alla sostenibilità e all’ambiente rischi di trasformarsi in un effetto boomerang.
Esiste un potenziale rischio green washing per il settore ottico nel recente proliferare di campagne a tutela dell’ambiente e dell’ecosostenibilità?

Sostenibilità e rispetto ambientale sono, oltre che un valore etico primario, anche un’ottima leva di marketing per brand e aziende. Ma in alcuni casi possono rappresentare pure un rischio. Certo, le campagne di green marketing in voga fin dai primi anni 90 appaiono meritorie e sposano una causa tanto nobile quanto urgente: la salvaguardia del nostro pianeta, messo a rischio da comportamenti umani distruttivi. Inoltre evidenziano il ruolo e lo sforzo crescente che alcune delle principali imprese stanno mettendo in campo per contrastare inquinamento e depauperamento delle risorse. Ma sarà sufficiente a convincere i consumatori che si tratta di un impegno concreto e duraturo e non, invece, solo di un facile pretesto per valorizzare la reputazione aziendale?

Il termine green washing, letteralmente “lavare verde”, che in italiano può essere reso solo con un’espressione più articolata del tipo “darsi una patina di credibilità verde, cioè ambientale”, risale a metà degli anni 80, quando l’ambientalista statunitense Jay Westerveld lo coniò per stigmatizzare la pratica degli hotel che invitavano gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani con la motivazione di ridurre l’impatto ambientale del lavaggio della biancheria, mentre, in realtà, lo scopo principale era solo economico per diminuire le spese di lavanderia. Oggi l’ecologia è di grande attualità ed è risaputo che attribuire un’anima verde a un’azienda impatta positivamente sulle decisioni di acquisto e di consumo. Il rischio, quindi, è farsi prendere la mano, esagerare con gli aggettivi ed enfatizzare tramite pubblicità e informazione un concetto di sostenibilità che non si rivela effettivamente riscontrabile nella produzione e nella missione dell’azienda stessa. Possono il marketing e la comunicazione “coprire di verde” pratiche e visioni tutt’altro che sostenibili?

Anche nel mondo dell’ottica i grandi marchi risultano giustamente sensibili a questo tema e tendono a evidenziare il proprio impegno concreto in tal senso. Seppure si tratti di azioni meritorie, anche fosse solo per la testimonianza di un’attenzione o per il carattere di esemplarità, corrono il rischio che un consumatore sempre più attento e consapevole vada oltre i claim e gli slogan, le giudichi non del tutto trasparenti e ricostruisca una diversa immagine ambientale dell’impresa. Si può correre il rischio, quindi, di finire con l’attribuirsi valori “verdi” che in realtà non si meritano o che non si meritano del tutto. Promuovere una strategia di comunicazione che esalti concetti quali eco, bio e green, la quale tuttavia non trova alcun riscontro in azioni reali, è certamente un caso raro, anche se in passato non sono mancati esempi in tal senso. Ma nell’ottica la “entusiastica” strategia di comunicazione potrebbe trovare riscontro concreto in azioni solo marginali, poco impattanti e quindi non adeguate rispetto a quanto sarebbe necessario e possibile fare: torna, perciò, il perenne conflitto tra il voler apparire e il non essere, tra immagine e realtà.

Il confine tra marketing green e green washing risulta peraltro davvero labile e a volte basta poco per attraversarlo e porre le basi per un effetto domino pericoloso. Comunicare male, magari attraverso l’abuso o l’uso disinvolto di termini come “sostenibile” e “sostenibilità”, oltre a esporre al rischio sanzionatorio, porta a perdere credibilità agli occhi dei consumatori ed espone il brand a una caduta della reputation. E, ancor peggio forse, rischiando di coinvolgere in tal senso tutta la categoria di appartenenza. Abbracciare seriamente la strada della sostenibilità, nonché adottare sistemi di certificazione ed etichettatura che garantiscono l’appartenenza delle imprese ai regimi di tutela ambientale, presuppone prima di tutto il costo del cambiamento culturale, l’unico necessario a realizzarla concretamente in azienda e in grado di generare valore, con il supporto delle relative attività di formazione e di comunicazione mirate a promuoverlo.

Occorre, infatti, intervenire per favorire un radicale cambiamento di mentalità rispetto agli attuali e prevalenti modelli e stili di gestione. Intraprendere all’interno di un’azienda un percorso serio verso la sostenibilità richiede partecipazione e dialogo per imparare a valutare l’impatto delle scelte e delle decisioni in ambito non solo economico, ma anche ambientale. Da qui la necessità di promuovere all’interno dei centri ottici e dell’industria un vero e proprio protocollo verde in grado di premiare le scelte green che sempre più fanno il paio con innovazione: un’innovazione che deve riguardare tutti i processi e le funzioni aziendali, oltre che i rapporti con stakeholder, fornitori, distributori e ovviamente i clienti finali.

Articolo di Marco Brugnola pubblicato su b2eyes magazine n6 2022

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